Fraternità e Amicizia Società Cooperativa Sociale Onlus

La redazione di Sogni di Cristallo intervista Gemma Calabresi

Ragionando di perdono (e di divani)

L’autrice del libro LA CREPA E LA LUCE si racconta alla nostra redazione

È stato un inseguimento che per le nostre solite tempistiche potremmo definire molto breve. Giusto il tempo di trovarci a preparare le domande. Qualche giorno prima, la telefonata al figlio Luigi (che non smetteremo mai di ringraziare per la disponibilità dimostrataci), il quale, detto fatto, in men che non si dica ha fissato con sua madre la data dell’incontro. Poi le emozioni hanno fatto il resto, in attesa del giorno fatidico.
Ma è come se l’avessimo sempre conosciuta, la signora Gemma Calabresi.
Inconsapevole protagonista di parecchie nostre riunioni di redazione, col suo recente libro, del quale facciamo ampio accenno. Una storia singolare la sua, che diventa cronaca nel 1972, con l’assassinio del marito Luigi, commissario di polizia, ad opera di un commando, come un tempo venivano definiti i gruppi paramilitari di matrice brigatista. Una stagione terribile che merita forse di essere chiusa, per quanto attiene alle aule di tribunale, per passare al giudizio della Storia. Quella con la S maiuscola. Ma a noi questo interessa poco, affascinati come siamo dal continuo riferimento al perdono che questa donna straordinaria ha vissuto sin da giovane, e continua a praticare anche oggi, a 50 anni dai tragici fatti che hanno cambiato il corso della sua esistenza. Noi partiamo da qui…

Una storia, la sua, complessa, affascinante, sfaccettata, drammatica, eppure solcata dalla speranza. Da dove si inizia a raccontare, una storia così?

Intanto grazie per avermi invitata. Sono contenta che abbiate detto che la mia è una storia “solcata dalla speranza”. Il mio è un libro di intriso di dolore, ma contrassegnato dalla speranza. Per tanto tempo, pur avendo intrapreso un cammino di perdono, l’ho tenuto rinchiuso dentro di me. È stato un percorso durato anni, quello che mi ha portato a questa convinta scelta di perdono. Sono persuasa che fosse necessario condividerla e testimoniarla agli altri.  Condivisione e testimonianza, cioè affidamento. Sono certa che dopo questo nostro incontro, anche voi mi aiuterete a non scivolare indietro, a non tornare sui miei passi. Perché ci sono momenti durante i quali la rabbia sembra sopraffarmi, soprattutto constatando come taluni servizi radiofonici, certe immagini televisive, le scritte che appaiono ancora sui muri, qualche articolo di giornale mi riportano indietro, al clima di odio di quegli anni. In questi casi, mi affido al sostegno di tutte quelle persone che hanno raccolto la mia storia nel corso di questi lunghi 50 anni ed alle quali voglio restituire speranza. Devo molto a queste persone, che mi hanno manifestato la propria solidarietà nei posti più impensabili (per strada, al supermercato, in metropolitana), alle strette di mano ricevute, a quanti mi hanno scritto, a quelli che mi hanno detto “l’ho pensata”, “ho pregato per lei…”. Mi hanno aiutato a comprendere come anche dopo un dolore lacerante si può tornare ad amare la vita.

Il suo è un lungo è impervio cammino di perdono. Una strada complessa, irta di curve, di trabocchetti, forse anche di ripensamenti. Sono percorsi che sperimentiamo anche noi, nelle personali storie del vivere quotidiano. Anche noi abbiamo provato il peso e la fatica del perdono, talvolta tornando pure sui nostri passi. La conseguenza è una confusione ed un’insoddisfazione che si riempie di domande e risposte inevase… perciò, che strada è stata, la sua strada di perdono? Come si poneva ieri e come si pone oggi?

Il perdono non è cosa che si dà col ragionamento… È la parola stessa che lo dice: “perdono”, cioè “dono per”. Mi è parso che questa scelta dovesse essere compiuta indipendentemente dal fatto che mi venisse richiesta o meno, senza aspettarmi niente in cambio. Perciò ho cominciato a riflettere sui responsabili della morte di mio marito: perché non avrebbero potuto essere buoni padri e buoni mariti, avere amici fidati, e magari aiutare altre persone in difficoltà? Quale diritto avevo io di relegarli per tutta la vita all’atto più tremendo che avevano compiuto? Durante il processo mi è capitato di osservare uno degli imputati dirigersi verso il fondo dell’aula (quello riservato ai posti per i parenti). Ho visto quest’uomo abbracciare il figlio, accarezzarlo e baciarlo. Di questo padre affettuoso, ho pensato: ecco, in questo momento lui è come me; anch’io avrei fatto così. Perciò se una persona fa un gesto buono, non deve essere giudicato dagli errori commessi in vita.

In questa storia di perdono, che ha coinvolto l’intera sua vita, è accaduto qualcosa di meraviglioso e per niente affatto scontato. Per quel che abbiamo letto, anche i suoi figli sono stati infettati da questo benefico virus. Ce ne vuole parlare?

I miei figli non hanno completamente perdonato, devono ancora finire di compiere il loro cammino di perdono. Sono comunque molto contenta del fatto che hanno saputo voltare pagina ed apprezzare la gioia di vivere. Hanno saputo compiere il loro percorso carico di umanità, di ricomposta e ritrovata gioia di vivere; hanno fatto passi avanti. Mai ho sentito insultare i responsabili della morte del loro padre. Spesso mi ripetono: ”Quando avremo la tua età, mamma, perdoneremo anche noi”. Prendono tempo. Ma li so molto attenti agli altri e questo mi basta. Un paio di anni fa, mio figlio Mario è andato a trovare Giorgio Pietrostefani (uno di quelli che ha organizzato l’omicidio di mio marito e che durante il processo si era rivelato come uno dei più duri: mai un sorriso, neppure un saluto, niente): anziano, molto malato, ha chiesto che questo colloquio rimanesse privato. Ma io che sono birichina so per certo che Dio è andato a trovare anche lui. Di più non posso dire, però penso si capisca…

Nel suo libro descrive la forza ed il valore degli incontri, anche casuali, molto spesso con persone sconosciute; riteniamo questo valore un potente antidoto contro il male che sovente scorgiamo intorno a noi. Nelle nostre vite, gli altri rappresentano un punto di riferimento davvero imprescindibile. Ci racconta quanto è stato importante per lei il valore dell’altro?

Non mi stanco di ripeterlo: gli altri sono la cosa più importante che noi abbiamo. Vi racconto questi due episodi. Un giorno mi trovavo sul lago di Como. Vedo un uomo, più o meno della mia età, con accanto una signora, che immagino sua moglie. Mentre mi vengono incontro a braccia aperte, lo sento esclamare: “Che bello incontrare una cara persona!”. Lì per lì non colgo il senso di quella frase. Poi la meraviglia: “Il giorno che lei è rimasta vedova (era il 17 maggio del 1972) io e mia moglie ci siamo sposati. Siamo rimasti così sconvolti – noi che iniziavamo la nostra vita matrimoniale e lei che la finiva così drammaticamente – che da allora abbiamo deciso di portarla con noi nel nostro matrimonio. Da allora, tutti i giorni abbiamo pregato per lei”.  Ci siamo abbracciati calorosamente, anche se non li avevo mai visti prima; ci siamo abbracciati forte, con le lacrime agli occhi. Poi ho detto loro: “Ecco perché ce l’ho fatta, grazie a voi! Io non ce l’ho fatta, ce l’abbiamo fatta!” L’altro episodio è accaduto alla fine di un incontro pubblico al quale ero stata invitata a parlare. Si avvicina una signora, forse un po’ più giovane di me.  “Signora, io abitavo nella sua stessa casa, quando hanno ucciso suo marito. Appena sentiti gli spari (mi stavo preparando per andare in università), sono corsa spaventata con mia madre alla finestra: quando abbiamo visto suo marito per terra, lei si è subito ritirata terrorizzata, mentre io sono rimasta lì impietrita, finché mia madre, strattonandomi, mi ha detto: “Vieni dentro, perché dobbiamo pregare per loro”. È scattato immediato l’abbraccio. Di questi esempi di fratellanza ne ho avuti davvero tanti in questi anni.

Il suo libro s’intitola LA CREPA E LA LUCE. Una luce che in maniera del tutto naturale lascia trasparire una prospettiva di fede religiosa. E dunque le chiediamo: come questa luce ha fatto breccia nella sua vita? Sul quando, la risposta è forse già contenuta nel capitolo più commovente (“Dio sul divano”) che abbiamo riletto più volte.

La crepa è avvenuta la mattina dell’uccisione di mio marito. Lì per lì, nessuno voleva dirmi la verità. La chiesi al mio parroco: me la sussurrò. In quel momento, sono crollata, proprio lì, su quel divano che dà il titolo al capitolo. Mi trovavo a casa dei miei (mi avevano portato lì) ed in quel momento il senso di disperazione, unito ad una sensazione di vuoto, sembravano avere il sopravvento. Poi…  non so quanto tempo sia passato, ma piano piano ho cominciato ad avvertire una grande pace interiore, una sensazione fisica, e assurda per le sue dimensioni, che mi ha fatto dire a don Sandro: “Recitiamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino, perché dovrà affrontare un dolore più grande del mio”. Sono certa che quelle parole non fossero farina del mio sacco; ne sono sicura. Nel totale smarrimento, laddove nulla sembrava avere più senso, qualcuno mi ha indicato una strada. Quella mattina credo di aver ricevuto da Dio il dono della fede. Dio però non mi ha tolto il dolore, semplicemente lo ha caricato di significato.

Da quella crepa piano piano è cominciata a filtrare la luce, finché questa ha vinto sul male. Il necrologio scritto da mia madre (io non ne sarei stata in grado), citava le ultime parole di Gesù sulla croce (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”). Perché il Figlio di Dio ha perdonato i suoi carnefici? Perché Gesù in quel momento era uomo e come tale sapeva che sarebbe stato impossibile per noi uomini perdonare nel momento di un dolore così tremendo. Ma se Dio aveva già perdonato gli assassini al posto mio, anch’io dovevo e potevo intraprendere quel cammino di perdono. Sicché oggi io prego per i responsabili della morte di mio marito, affinché raggiungano anche loro la pace nel cuore.

Glielo confessiamo: siamo portatori sani di sogni. Anche ad occhi aperti. E spesso rimuginiamo: “Se non fossi fatto così… se non avessi a che fare tutti i giorni col mio limite… se potessi per un giorno, almeno per una volta…”. Anche nel suo libro dedica un capitolo ai sogni.
Perciò: in quale misura i sogni l’hanno aiutata (oppure ostacolata) a riprendere in mano la sua vita?

Penso che sognare nella vita sia importantissimo; perciò non dobbiamo mai rinunciare ai nostri sogni. Rinunciarci significa non puntare in alto, e fare emergere le nostre difficoltà. Forse Dio che ci ama ci ha voluti proprio così. Io credo di essere nata con questo compito, quello di testimoniare la mia esperienza, cosa che faccio ancora adesso che ho 76 anni. Questo è il mio cammino, la strada che ho imparato piano piano a percorrere.

Quella che ci sta raccontando è una storia dove il suo privato (cosa c’è di più caro di un marito?) si mescola con il pubblico (una delle pagine più tragiche della storia della nostra repubblica). Cos’ha significato il prima, rispetto al dopo, e che ricordi ha di ciò? Cosa poteva essere e non è stato?

Del prima ricordo la spensieratezza e la felicità. Io ero molto giovane, sono tornata dal viaggio di nozze che aspettavo già Mario, il mio primogenito (Mario Calabresi, già direttore di Repubblica, oggi curatore di una newsletter e di un podcast, entrambi si chiamano “Altre Storie”, che talvolta riempiono di senso e curiosità i nostri incontri di redazione, NdR). Solo dopo ho compreso il perché di tanta fretta: tre figli in tre anni… Certo, perché Mario, Paolo e Luigi dovevano venire al mondo, dovevano esistere, poiché ciascuno di loro avesse un suo preciso posto nella vita. Era poco il tempo concessomi accanto a Luigi: e infatti non sono riuscita neppure a festeggiare il terzo anniversario di matrimonio (mancavano 13 giorni).  L’ho “festeggiato” a Musocco (il quartiere di Milano dove è ubicato il Cimitero maggiore, NdR) sono andato a trovarlo là. Confesso che nel “dopo”, soprattutto i primi tempi, ero così arrabbiata che ho coltivato anche fantasie di vendetta (cosa che per cinquant’anni non ho detto a nessuno, nemmeno ai figli, né tantomeno agli amici,) delle quali mi sono vergognata. Non era certo questa l’educazione ricevuta in famiglia. Ma la violenza con la quale mio marito mi è stato strappato, la mia giovane età, sono stati motivi per i quali tante volte mi sono sentita sopraffare dalla rabbia. Nonostante ciò, come già ho avuto modo di dire, i miei figli non sono cresciuti nel rancore: col tempo ho capito che l’odio divora, annienta e disperde giornate che meritano di essere vissute in maniera diversa.

L’ultima domanda ci sta particolarmente a cuore. Ciascuno di noi è portatore di una storia dove il rimpianto diventa compagno di strada spesso ingombrante. Ha qualche rimpianto anche lei?

Voglio dirvi che non dovete avere rimpianti, ma anzi dovete sentirvi quasi degli eletti, eletti da Dio. Tempo fa sono stata invitata a Padova, nel carcere sperimentale dove i detenuti hanno la possibilità di svolgere attività lavorative esterne. Dopo l’incontro, ho chiesto di incontrare singolarmente tre ergastolani che avevano appena ricevuto i Sacramenti (il primo la Comunione, l’altro il Battesimo, l’altro ancora la Cresima). Desideravo parlare con loro per provare a capire come delle persone resesi colpevoli di omicidi potessero allontanarsi così nettamente dalle loro storie precedenti, fino a desiderare di accostarsi alla fede.

Nei pochi minuti che ho avuto a disposizione con ciascuno di loro, sono riusciti a raccontarmi la disperazione subentrata ad un gesto così efferato. Eppure anche loro, in maniera del tutto improvvisa, sono stati colti da una pace interiore, da una forza simile a quella che io stessa avevo provato cinquant’anni fa. Che sia stato su un divano o su una sedia, sono convinta che dovunque loro si trovassero, sono stati toccati da Dio.

E noi siamo stati toccati dalle tue parole, Gemma, che porteremo nel cuore a lungo. Accompagnandola verso l’auto, a saluti già avvenuti, la vediamo allontanarsi tranquilla. Fatti pochi passi, nel girarsi cogliamo un sorriso oltremodo carico di affetto: “Da oggi pregherò per voi”.

Anche noi, Gemma, anche noi…

 

 

Condividi sui tuoi social: